Approfondimento salario minimo

Published on Marzo 15th, 2019 | by Militant

0

GLI INGANNI DEL “SALARIO MINIMO”

“La Stampa” del 5 marzo scorso scrive: “Il salario minimo è la soglia minima della paga oraria che viene stabilita per legge e si applica ai lavoratori dipendenti.” E’ “un argomento contenuto nel < Contratto di governo > stilato da Lega e M5S nel 2018. Il salario minimo è tradizionalmente considerato, nel diritto del lavoro, una misura atta a diminuire le disuguaglianze e a favorire la produttività aziendale”.

Stanno davvero così le cose? Proprio no. E vediamo il perché in termini marxisti, i nostri.
I costi di produzione della forza-lavoro ammontano ai costi di esistenza e di riproduzione del lavoratore. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Scrive Marx: “Il valore della forza-lavoro è determinata dal valore dei generi di prima necessità occorrenti per produrre, sviluppare, mantenere e perpetuare la forza-lavoro stessa”. Affinché la forza-lavoro possa continuare ad esistere i lavoratori devono riprodursi, devono avere figli; perciò devono avere mezzi di sussistenza non solo per se stessi ma anche per i loro figli. L’ammontare di cibo, vestiario, riscaldamento, abitazione, macchina variano a seconda del clima e delle condizioni specifiche in cui si trova il sistema capitalistico (fase di prosperità, di stagnazione, di crisi). Quindi nella determinazione del valore della forza-lavoro, spiega sempre Marx, “entra perciò un elemento storico e morale che distingue la forza lavoro dalle altre merci”. Ma – aggiunge – “in un determinato periodo di tempo, la quantità di mezzi di sussistenza necessari al lavoratore è praticamente conosciuta”.

Questa premessa è indispensabile per comprendere che il salario così individuato è un salario minimo. Ma, facciamo attenzione: questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli lavoratori, milioni di lavoratori, non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe lavoratrice, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo. Gli economisti classici consideravano perciò questo “minimo” di salario come il “prezzo naturale” del lavoro: cioè, come prima anticipato, ciò che è necessario per far produrre gli oggetti indispensabili al sostentamento dei lavoratori, per metterli in condizioni di nutrirsi, bene o male, e di propagare alla meglio la propria classe.

Come Marx ebbe sempre modo di precisare, in quei costi necessari per l’esistenza e la riproduzione rientrano anche i prezzi (le tariffe, le imposte, le tasse, ecc.) pagati per ottenere tutte le merci (oggetti e servizi) avute in cambio del salario nominale. Non sono solo, quindi, i costi di quelle merci che servono al lavoratore singolo che percepisce la busta-paga, ma i costi sostenuti per tutte le persone, vecchie e giovani, abili o inabili al lavoro, che dipendono per la loro esistenza da quella “minima” fonte di reddito. La definizione di salario come entità sociale, reale e relativa, “minima” (nel senso storico chiarito), è quella che si palesa in generale nel comando del capitale sul lavoro.

All’obiezione secondo cui i lavoratori non avranno sempre questo minimo di salario, rispondiamo che, se è per questo, non è per nulla sicuro che essi avranno sempre questo minimo. Durante un certo arco di tempo, che è sempre periodico, in cui l’economia attraversa il ciclo di prosperità, sovrapproduzione, ristagno, crisi, se prendiamo la media di ciò che i lavoratori ricevono in più o in meno del minimo, troviamo che nell’insieme, giacché quel minimo vale per l’intera classe e non per il singolo, essi non hanno ricevuto né più né meno che il minimo; o, in altre parole, che il proletariato si è conservato come classe.
Con lo sviluppo della crisi tale processo assume sempre più evidenza mondiale, fino al punto che l’espulsione dal mercato del lavoro per molti diviene definitiva. E non si tratta certo di una novità odierna. Non solo, ma per i rimanenti, più o meno occupati, regolarmente o irregolarmente, a fronte di più lavoro corrisponde sempre meno salario. Ogni lavoratore è spinto, osservò Marx, a fare “concorrenza a se stesso in quanto membro della classe operaia”. E una concorrenza tra lavoratori salariati entro la classe diventa letale se, soprattutto in fasi di crisi, un minimo di salario venga fissato (magari per legge, come si propone di fare l’attuale governo pentastellato-leghista) al di sotto del valore della forza-lavoro, come avviene assai spesso negli interventi di tipo assistenzialistico.

Per questi motivi la determinazione del minimo del salario (come “prezzo naturale” del lavoro) fa sì, come asseriva Smith, che esso sia più basso per il salariato libero che per lo schiavo; e accade che nella produzione capitalistica completamente sviluppata l’accumulazione possa operare rapidamente sulla domanda di lavoro solo se prima dell’accumulazione si è avuto un grande aumento del proletariato (soprattutto attraverso la riproduzione dell’esercito industriale di riserva in tutte le sue forme), se quindi il salario è a un livello molto basso in modo tale che anche un suo aumento lo lasci basso.

Insomma, per una corretta definizione del “salario minimo” occorre che anche tale concetto sia coerentemente basato sulla teoria del valore e del plusvalore: a ciò si riduce l’intera questione. Non serve che il proletariato si dia la pena di definire un livello minimo del salario, giacché esso è dato, sia nella pratica sia nella formulazione scientifica, dal rapporto di valore del capitale. Anzi, ogni volta che il proletariato tenta di dire la sua sul tema – posta la vigenza e dominanza del modo di produzione capitalistico – ottiene l’effetto contrario, autolesionistico, di contribuire a deprimere ancor più il salario normale al di sotto di quel minimo, per effetto della concorrenza che il minimo legale ha sul livello salariale normale degli occupati (la storia ultra secolare di questo fenomeno dovrebbe insegnarlo con abbondanza di argomenti).

Infatti, se in base alla generale teoria marxiana del valore e del plusvalore si intende il salario (sociale) in quanto valore globale della forza-lavoro, esso appare anzitutto come capitale variabile per il complessivo processo di autovalorizzazione del capitale anticipato: è il pluslavoro che produce (o riproduce conservandolo nella circolazione) il plusvalore. Stando così le cose, e la loro rappresentazione scientificamente esatta, qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Ossia la fonte di quel reddito salariale è rintracciabile solo o nell’ammontare del valore globale prodotto (uso della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro: il capitale non regala niente.

Se i mezzi di sussistenza (sotto qualunque forma e a qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza) non fossero “capitale” non manterrebbero la forza-lavoro dei lavoratori salariati, mentre è proprio il loro carattere di capitale – e non di reddito – che dà ad essi precisamente la proprietà di mantenere il capitale stesso per mezzo di lavoro altrui. La massa dei mezzi di sussistenza che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato dipende perciò dal rapporto tra il plusvalore e il “prezzo del lavoro” (cioè il valore della forza-lavoro), e tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta cioè, originariamente, di reddito. Il salario è prima capitale; solo dopo lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la loro forza-lavoro è prima merce di loro proprietà e solo dopo lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale autovalorizzante.

Dalla corretta definizione data di “salario minimo”, dunque, si possono capire meglio alcune cose.
1) Ogni conquista in termini di elevamento del livello salariale dipende dalla capacità storica, o anche contingente e perciò assai provvisoria, del proletariato di imporre con la forza della lotta un aumento di valore della propria complessiva forza-lavoro.
2) Se si ha una tale forza non si vede per quale ragione essa non debba essere esercitata per ottenere, globalmente per la classe, il pagamento pieno del salario normale degli occupati e l’allargamento della stessa occupazione, anziché disperdere quella (poca) forza per elemosinare un’assistenza minimale, controproducente perché necessariamente inferiore al valore normale della forza-lavoro.
3) l’idea che il salario sia un reddito tout court, senza che se ne sia prima compresa la sua essenza di capitale, ne fa presumere una sua variabilità arbitraria, giacché così facendo lo si considera smithianamente quale addendo indipendente per il computo del prodotto netto complessivo; ossia, lo si stima come grandezza monetaria assolutamente svincolata dalla produzione di valore, la quale dipende invece dalle sue parti costitutive di capitale variabile (appunto, e non immediatamente salario), pluslavoro altrui non pagato e capitale costante.
4) Una tale teoria del salario come reddito può albergare solo nel campo delle analisi economiche borghesi, marginalistiche vecchie e nuove, pure e spurie (keynesismo e sraffismo inclusi), quali ultime estensioni di una concezione del reddito senza valore, volgarizzata dall’erronea sommatoria smithiana; e si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito” salariale dalla forza-lavoro come merce (dal suo valore) e perfino dal lavoro medesimo, pretendendo così di esautorare dalla scena tutta l’analisi di classe e di lotta di classe, che viceversa la teoria del salario richiede, sostituendola facilmente con l’indifferenza comune della “cittadinanza”.
5) Risulta ora chiaro dai punti che precedono le ragioni per le quali Marx – tenendo fermo alla teoria di valore, plusvalore e capitale e alla teoria delle classi – non abbia mai trattato della questione del “salario minimo”, se non, da un lato, come corretta definizione di valore storico normale della forza-lavoro, data direttamente dalle leggi del capitale, senza bisogno di aggiungere altro, e, dall’altro, solo per rispondere di sfuggita alla vasta e dispersiva mole di interventi sul tema, tutti non per caso provenienti dai circoli utopistici e filantropici, cristiani e caritatevoli, del socialismo e della borghesia, piccola e media, illuminata.

Dunque, conclude Marx stesso, questa legge della forza-lavoro come merce, cioè la legge del “minimo del salario”, si verifica sempre più a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sia divenuto una realtà, un’attualità. Così, delle due possibilità l’una: o è necessario rinnegare tutta l’economia politica basata sul presupposto del libero scambio, il mitico “mercato” oggi invocato anche per la piena “flessibilità” di lavoro e salario, ovvero bisogna convenire che in regime di libero scambio sul mercato capitalistico i lavoratori saranno colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche.

Tags: ,


About the Author



Comments are closed.

Back to Top ↑