Politica

Published on Dicembre 6th, 2018 | by Militant1

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Le convulsioni keynesiane della sinistra neo-riformista

Nei giorni scorsi è emerso un quadro fin troppo chiaro inerente le convulsioni del sistema capitalistico. La sovrapproduzione generalizzata di capitale, che è conseguenza della forma imperialistica del mercato mondiale, con la consequenziale crisi dei profitti e “crisi del lavoro”, produce effetti devastanti. In Italia siamo in piena recessione (la chiamano “crescita negativa”) ed incremento della disoccupazione (arrivata al 10,6%, con un picco di quella giovanile che raggiunge il 32%).
La soluzione, secondo gli ultimi residui della sinistra riformista, (da “Il manifesto” a “Potere al popolo” a De Magistris) sarebbe quella della ridistribuzione della ricchezza e del ritorno a politiche keynesiane, legate ad un intervento dello Stato per sostenere la produzione ed elargire servizi sociali.
Ci viene in mente Engels quando affermava che “la situazione storica teneva in suo potere anche i fondatori del socialismo: all’immaturità della posizione delle classi corrispondevano teorie immature”. Le sue parole, pur critiche, rappresentavano comunque una giustificazione storica della grandezza dei Saint Simon, Fourier, Owen.
Oggi, viceversa, estendendo le osservazioni engelsiane si ha il dovere di dire ben altro. Alla maturità della posizione delle classi, su scala mondiale, nella fase imperialistica del tardo capitalismo, fa ora riscontro un vergognoso depistaggio ideologico (e politico-programmatico) dei nuovi apostoli della giustizia sociale che, in nome della “novità” (rispetto al marxismo) ripropongono soluzioni velleitarie di astratta giustizia sociale, tanto demagogicamente facili quanto utopisticamente irrealizzabili.
In realtà gli aspiranti “innovatori” della sinistra neoriformista ripropongono un’ennesima riedizione del socialismo borghese e piccolo-borghese, di cui il proudhonismo è il riferimento costante.
“I professori della democrazia sviluppata”, così li chiamerebbe Marx, riproponendo la richiesta dello Stato, nelle condizioni attuali propongono di far finanziare allo Stato (cioè far pagare coattivamente alla collettività) le spese necessarie a rendere remunerativo (in base alle aspettative di profitto) il capitale. Si rendono conto di battersi per fare l’ennesimo regalo ai padroni? Ed ancora: si sono mai interrogati sul fallimento del vecchio intevento dello Stato, prima di riproporne uno nuovo? Hanno mai considerato la differenza che passa tra Proudhon e Marx? E quella che separa Bismark da Lenin?
Confusione ed eclettismo viaggiano di pari passo e portano la sinistra neoriformista che propone, fuori dalla storia, i classici programmi di cose “buone e giuste” (investimenti, occupazione, istruzione, sanità, pensioni, ecc.) che tutt’al più potrebbero trovare posto in una letterina di sognati desideri che un bambino simbolico potrebbe scrivere a Babbo Natale.
Ma avevamo davvero bisogno di Viola Carofalo o di De Magistris, o degli altri campioni dell’odierno riformismo, per leggere elenchi di buoni propositi, tutti da realizzare entro il modo di produzione capitalistico, senza intaccare il dominio del capitale?
La loro incoerenza è pari solo alla loro confusione. La stessa in cui si trovavano Proudhon e Duhring che pretendevano di rendere più equo e giusto il sistema, con provvedimenti che avrebbero richiesto un radicale ribaltamento dei rapporti di classe.
Il vizio d’origine della sinistra neo-riformista sta nel ritenere di poter andare al di là del rapporto tra capitale e lavoro, prescindendone. Marx, da parte sua, criticando l’economia politica e l’intera ideologia dominante prese esattamente la posizione opposta. “Lasciamo stare la sfera rumorosa della circolazione che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno o l’altro nel segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: Vietato l’ingresso agli estranei. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale. Finalmente si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore”.
L’analisi di Marx è mille volte più convincente delle esternazioni degli (aspiranti) populisti di sinistra. Ed infatti dopo l’indicazione scientificamente rivoluzionaria di rompere quel cartello con su scritto “vietato l’ingresso”, ci sembra del tutto riduttivo e fuorviante essere ributtati fuori, come “estranei”, alla “superficie accessibile a tutti gli sguardi”. Per i comunisti è imprescindibile rimanere, con la propria teoria politica antagonistica, saldamente dentro il “laboratorio della produzione”.
Piaccia o no, è ancora qui che si è costretti a muoversi per sapere cogliere ed esprimere nel rapporto di capitale tutte le contraddizioni della merce. E da qui che occorre far partire la propria azione politica, se vogliamo cambiare davvero gli attuali oppressivi rapporti di classe. Le scorciatoie portano tutte dentro la palude dei riformismi. Non solo non ci interessano, ma le combattiamo risolutamente perché portano gli sfruttati ad abbracciare illusioni cui seguiranno le ennesime sconfitte.

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