Approfondimento new deal e fascismo, crisi, elezioni europee, roosvelt, mussolini

Published on Gennaio 10th, 2019 | by Militant

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Neaw deal e fascismo: due facce della stessa medaglia

Con l’approssimarsi delle elezioni europee assistiamo al consueto spettacolo della sinistra opportunista che cerca di accattivarsi le simpatie delle masse popolari promuovendo politiche riformiste.

Le forze riformiste (da Varoufakis a Sanders, da Linke a Syriza, dal Front de Gauche a Potere al Popolo!) propagandano una visione deformata della realtà, per cui saremmo di fronte non alla crisi del sistema capitalista, ma a politiche errate perché neoliberiste, non alla dimostrazione lampante della natura di classe dello Stato capitalista, ma alla mancanza del suo intervento come fautore del compromesso tra le classi e ordinatore del mercato.

Le socialdemocrazie storiche praticano da tempo politiche neoliberali. Ne consegue che i riformisti “progressisti” tentano di appropriarsi delle tradizionali posizioni socialdemocratiche, da propagandare come soluzione di tutti i problemi sociali.

In particolare, il new deal rooseveltiano viene sbandierato come un vero e proprio programma politico per cui battersi, quasi che rappresentasse il faro per orientarsi alla ricerca dell’alternativa sociale.

Abbiamo più volte precisato come queste politiche, in una fase di crisi acuta del sistema capitalistico, siano fuori dalla storia e rappresentino l’ennesimo inganno per le masse impoverite e private di un futuro dignitoso dal sistema capitalista.

In quest’articolo – e nella documentazione che poniamo all’attenzione dei nostri lettori – affrontiamo sotto il profilo storico ed economico la profonda contiguità tra la politica economica fascista e quella del new deal, espressione di un comune punto di vista corporativo che avvicinava notevolmente i sistemi socio-economici dei paesi fascisti alle democrazie occidentali.

Il quadro degli anni ’30 vedeva una situazione di profonda crisi economica che riguardava tutti i paesi capitalistici, con un crollo della produzione e del sistema creditizio, milioni di disoccupati, una crescente attenzione con cui la maggioranza della popolazione guardava all’Unione Sovietica. Fu proprio il rischio di un innesco della rivoluzione bolscevica negli Stati Uniti a spingere Keynes a consigliare Roosevelt di fare alcune concessioni sociali al proletariato statunitense ridotto allo stremo.

I governi dei paesi capitalisti, al di là delle differenze formali che li caratterizzavano, erano accomunati dai medesimi interessi di classe e dalle medesima esigenza di rimettere in moto il meccanismo dell’accumulazione, bruscamente interrotto dalla crisi. Per tentare di mantenere la “pace sociale” si aprì la strada all’intervento pubblico in economia, utilizzando l’espansione della spesa come strumento di incentivo della domanda. Soprattutto nel periodo compreso tra il 1933 e il 1937, negli apparati di governo di Italia e Stati Uniti erano numerosi i segnali di affinità e convergenza tra la politica economica dell’amministrazione Roosevelt e quella dello Stato corporativo fascista. Fu lo stesso Keynes a dire, offrendo la sua teoria economica ai nazisti, che la sua teoria generale “si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario”.

Soltanto dopo l’aggressione italiana all’Etiopia e l’inizio della seconda guerra mondiale cominciò a manifestarsi, nella propaganda borghese la tesi, poi divenuta senso comune, dell’incompatibilità tra i sistemi politici e sociali del fascismo e del New Deal.

La crisi degli anni ’30 aveva sgretolato il mito, tipico dell’ideologia liberista, del lasseiz faire. La libera iniziativa del capitalista aveva portato al collasso il sistema. In questo quadro, l’esperienza dell’economia fascista appariva come l’unica che potesse contrastare l’imponenza della crisi e potesse ridare fiducia e vigore a un’economia in crisi drammatica. L’opinione pubblica americana stimava la politica economica italiana e Mussolini come colui che era riuscito a scuotere l’economia italiana.

Gli uomini d’affari statunitensi, colpiti duramente dal tracollo produttivo e dalla miseria diffusa nella società, trovarono nella politica economica fascista il punto di riferimento da imitare. Il numero speciale di Fortune, uscito nel 1934 e dedicato allo Stato Corporativo, è assai indicativo, al riguardo.

Così, già nella fase iniziale dell’amministrazione Roosevelt, con la National Recovery Administration, e l’Agricultural Adjustement Act, emergeva una grande attenzione da parte del governo statunitense verso il corporativismo italiano. Intervenendo nel 1934, davanti all’American Economic Association, l’economista Hoover osservò che la politica rooseveltiana della cooperazione tra governo e mondo finanziario riproponeva fedelmente gli schemi del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco. Welk, uno studioso che si era occupato dell’economia fascista, riteneva che gli articoli della National Recovery Administration del New Deal fossero caratterizzati dai medesimi principi ispiratori di quelli che caratterizzavano i rapporti tra lavoratori italiani e le associazioni dei datori di lavoro durante il fascismo. Lo stesso Welk affermò esplicitamente che: “L’Italia ci dimostra che questa autorità può essere essa stessa un’emanazione della struttura sindacale esistente, un’élite liberamente scelta che, ispirandosi ai nuovi ideali di diritti sociali e di giustizia sociale, abbia la possibilità e la volontà di limitare, attraverso le organizzazioni che ne dipendono, la libertà del singolo a favore degli interessi della collettività”. Lo stesso presidente Roosevelt affermò che Mussolini “è veramente interessato alla nostra opera e a mia volta presto attenzione e sono molto colpito dalle sue realizzazioni e dal suo proposito evidentemente sincero di riportare l’Italia in condizioni di salute e di prevenire una generale crisi europea”.

Figure di rilievo, all’interno dell’amministrazione Roosevelt, come quella di Tugwell, esprimevano apertamente la loro ammirazione per il sistema corporativo fascista in quanto capace di coordinare i bisogni dei diversi settori industriali e di diversi strati sociali. Tugwell, durante un viaggio in Italia affermò: “Trovo che l’Italia stia facendo molte delle cose che mi sembrano necessarie. Anche qui le “persone perbene” si preoccupano del bilancio, ecc. Anche Mussolini incontra opposizione dallo stesso tipo di gente che avversa Roosevelt; egli tuttavia controlla la stampa che non può sbraitargli addosso menzogne quotidiane, e ha una nazione compatta e disciplinata, anche se carente di risorse”. Un altro

economista del tempo, Wright, affermava che “i principi fascisti sono molto simili a quelli che si sono venuti ad instaurare in America e questo conferisce loro un particolare interesse”. Questi autori pensavano che gli aspetti di pianificazione del corporativismo e il suo tentativo di attuare un collaborazionismo di classe potessero rivelarsi importanti per la National Recovery Administration. Il New Deal, secondo questa impostazione, obbediva alla stessa tendenza. Anche l’incremento del potere esecutivo era visto come un elemento indispensabile per poter attuare le nuove politiche interventiste, proposte come inevitabili per poter tentare di uscire dalla crisi.

Nel 1935 Mussolini intervenne a sua volta a sostegno della tesi dell’affinità tra il New Deal e la politica economica fascista in quanto entrambe erano animate da uno stesso spirito corporativo. Lo stesso Bottai, che fu Ministro delle Corporazioni, scrisse su Foreign Affair nel 1935 un dettagliato articolo sui parallelismi e le differenze tra corporazioni fasciste e la National Recovery Administration.

Più chiaro di così….

In ogni caso, ai tardivi ammiratori del New Deal ricordiamo quanto scrisse nel 1940 Keynes: “Sembra politicamente impossibile che una democrazia capitalistica organizzi la spesa sulla scala necessaria per realizzare il grande esperimento delle mie tesi, salvo che si verifichi una guerra”.

Fu la guerra imperialista, con il suo carico immane di morti e distruzioni, a risollevare le sorti del capitalismo, non certo il New Deal. Una lezione che è bene non dimenticare.

**Per approfondire con i testi “Lo stato corporativo” articolo redazionale pubblicato su Fortune, X, luglio 1934 e “Roosevelt e il sistema” Articolo scritto da Benito Mussolini per United States Universal Service e pubblicato dal Popolo d’Italia, 7 luglio 1933 clicca QUI**


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